giovedì 29 marzo 2012

VI PRESENTO LA SIGNORA CASSAZIONE


“VI PRESENTO LA SIGNORA CASSAZIONE” (una lezione del compianto avv. Titta Mazzuca, pubblicata sulla rivista Gli Oratori del giorno del mese di febbraio 2009 ed allegata alla relazione delll'Osservatorio sulla Cassazione dell'UCPI presentata al Congresso di Torino dell'ottobre 2009)

Il titolo di questo convegno – “Il controllo di legittimità sulle motivazioni” – rappresenta un punto culminante.
Prima tuttavia vorrei presentarvi la Signora Cassazione, che penso di conoscere bene avendola frequentata ininterrottamente da oltre cinquanta anni, esattamente dal 1953.


Luci ed ombre
Nella storia della Cassazione vi sono stati dei periodi luminosi, caratterizzati da sentenze splendide, che hanno costituito orientamenti sicuri per i giudici di merito.
Ad esempio, negli anni Cinquanta la Corte accolse alcuni principi di Bruno Cassinelli in tema d’infermità di mente. Stabilì la differenza fra infermità giuridica e malattia, ammettendo che la prima può discostarsi dalla seconda.
E stabilì come il grado d’incidenza dell’infermità, sulla capacità d’intendere e di volere, debba essere valutata in concreto e non con riferimento a classificazioni scientifiche enunciate in astratto.
Anche nell’epoca più recente vi sono stati periodi simili, ma con minore frequenza, specie dal momento in cui l’accesso dei magistrati alla Corte Suprema è avvenuto più sull’onda dell’anzianità che sulla valutazione del merito.
Positivo è stato il periodo in cui Corrado Carnevale ha diretto con sapienza e serietà la Prima Sezione Penale. Contro di lui una certa parte politica ha montato una campagna demagogica per il numero rilevante di sentenze annullate.
Invece, poiché la maggior parte degli annullamenti era dovuto a questioni di ordine processuale, la rilevanza del numero si spiegava col fatto che esse non potevano più essere ignorate quando si riscontravano nei processi successivi.
Lo strano sì è che, mentre le Corti presiedute da Carnevale erano tenute alla coerenza giurisprudenziale, ai magistrati che continuavano a commettere quelle nullità, nessuna critica venne rivolta!
Ma, nel tracciare un profilo della Corte che sia significativo, debbo indicarvi alcune tendenze abnormi, poiché - come la letteratura, secondo Gide, non si fa con i buoni sentimenti – così la storia critica di una istituzione non si può fare con la registrazione delle attività che rientrano nella norma.
Resistenza alle riforme
Una prima tendenza abnorme è quella ideologica, tesa alla conservazione del sistema e quindi alla svalutazione delle leggi di riforma.
E' un vecchio misoneismo che vede nelle riforme una diminuzione di potere.
Questa tendenza si è manifestata chiaramente nei confronti del codice di procedura penale del 1989. In proposito, sia sufficiente ricordare: la tolleranza delle valutazioni iniziali della polizia giudiziaria, ancorché il nuovo codice imponesse di limitarsi al resoconto dei fatti, tanto da chiamare "informative" i rapporti di denuncia, la svalutazione del principio di parità fra accusa e difesa, ancor prima che la legge n. 391 del 2000 aggiungesse nel codice un vero e proprio titolo, quello VI bis, sulle investigazioni difensive; la tolleranza all'ampliamento dell'ammissione di nuove prove da parte del giudice, ancorché l' art. 507 stabilisca il limite dell'assoluta necessità; la svalutazione dell'art. 511, che impone, in alternativa alla lettura, I'indicazione degli atti utilizzabili ai fini della decisione.
Un'altra svalutazione fra le più incomprensibili ed inaccettabili è quella relativa a i "nuovi motivi di ricorso", che, nonostante la dizione letterale, la Corte ha interpretato quale una semplice memoria, in quanto non si dovrebbero aggiungere altri motivi a quelli già dedotti nel ricorso principale.
Non ci si domanda perché il legislatore avrebbe dovuto chiamare questa memoria "nuovi motivi di ricorso".
E perché avrebbe dovuto prevedere una memoria rivolta alla Cassazione, quando, ai sensi dell'art. 121, le memorie sono previste "in ogni stato e grado del procedimento".
Come mai poi nell'art. 611 si consente - per il procedimento in camera di consiglio - la presentazione di "nuovi motivi e memorie", con ciò ribadendo che si tratta di generi diversi?
Infine, perché il nuovo codice, certamente ispirato al garantismo, avrebbe dovuto diminuire le facoltà difensive già concesse nel codice Rocco, che consentiva nei "motivi aggiunti" di dedurre nuove doglianze?
Trattasi, dunque, di una interpretazione che s’ispira appunto all’ideologia a cui ho accennato.
La conservazione prevale sulla nomofîlachia
Una seconda tendenza abnorme della Corte di Cassazione è quella che s'ispira alla conservazione delle sentenze e che spesso prevale sulla nomofilachia, cioè sul compito istituzionale di garantire l'uniformità nella interpretazione della legge.
Mentre è assolutamente legittimo preoccuparsi della prescrizione e precisarne la scadenza non appena il processo giunge presso la Corte, meno comprensibile è la tentazione - alla quale in qualche caso non si resiste - di trasformare il rigetto del ricorso nell'inammissibilità del medesimo, in maniera di evitare – secondo una recente giurisprudenza - la prescrizione che fosse nel frattempo intervenuta!
Un altro settore in cui la Corte di Cassazione appare oltremodo restrittiva è quella delle nullità assolute o generali, che spesso vengono intese come nullità "intermedie", se non addirittura come semplici irregolarità.
Non parliamo poi delle questioni d'illegittimità costituzionale.
E' veramente raro che la Cassazione abbia investito la Corte Costituzionale d'un qualche problema, mentre le più numerose ordinanze di sospetta incostituzionalità d'una norma sono state quelle pronunciate dai pretori.
Del resto, la Cassazione, sin dall'inizio, cercò di ritardare I'applicazione di alcuni principi costituzionali, distinguendo nella Carta le norme programmatiche da quelle precettive.
Il processo inteso come strumento
Non si può sottacere che, anche presso la Corte Suprema è penetrata una certa cultura dell'emergenza, del processo penale inteso come strumento di lotta alla criminalità, anziché come delicato sistema di pesi e contrappesi per misurare la validità delle prove.
Conseguentemente si è verificata una certa dilatazione delle fattispecie legali per aumentare l' area d'intervento del giudice penale.
L'esempio più clamoroso è quello della creazione giurisprudenziale del "concorso esterno nel delitto di associazione mafiosa".
Ora, poiché la condotta di questo reato consiste esclusivamente nella partecipazione, e quest'ultima non può verificarsi rimanendo all'esterno, I'unica ipotesi potrebbe essere il favoreggiamento personale d'un associato, mai il concorso nello stesso reato di colui che si associa.
Un capitolo a parte meriterebbe il problema del numero enorme dei ricorsi che si riversano sulla Corte.
Questo problema – anziché essere affrontato legislativamente, attraverso la depenalizzazione dei reati minori, I'incentivazione dei patteggiamenti, una maggiore applicazione delle archiviazioni, una durata ragionevole dei procedimenti in maniera da non rendere appetibile la prescrizione – viene risolto dalla stessa Cassazione.
Si procede ad un iniziale spoglio e, quando il magistrato addetto ritiene che il ricorso vada eliminato, lo invia alla Procura Generale.
Quest'ultima, servendosi d'un modulo prestampato, sbarra una delle caselle (tipica quella con la dizione "censura in fatto") e chiede I'inammissibilità. Il ricorso viene così inviato alla Settima Sezione, che lo fissa in una camera di consiglio in cui non è prevista la partecipazione del difensore (cosiddetta" camerone").
Qui di solito, in una sola udienza, si dichiarano inammissibili cento-centocinquanta ricorsi, senza che vi sia il tempo materiale di comprendere collegialmente I' essenza della questione.
Sono casi in cui la Signora Cassazione sembra impersonare la vicenda di "Arsenico e vecchi merletti..."
Sindacato problematico sulle motivazioni
Giunti al punto culminante del nostro incontro vale la pena di ricordare che nel nostro sistema, la motivazione delle sentenze e degli altri provvedimenti del giudice costituisce ormai I'unica effettiva garanzia che ci rimane.
Infatti, un tempo - nei giudizi più gravi, quelli di cui era competente la Corte d'Assise, in essi comprese allora le rapine – esisteva la Giuria vera e propria, che si riuniva in camera di consiglio, senza la partecipazione di alcun giudice togato, ed emanava il verdetto.
Poi il fascismo abolì questa garanzia: una garanzia effettiva, perché libera da incrostazioni corporative, ed emblematiche, perché il cittadino veniva giudicato da altri cittadini suoi pari.
Ebbene, nella misura in cui un regime totalitario riteneva giusto abolire la Giuria, era assurdo che il regime democratico si appiattisse su tale misura e si accontentasse di una parvenza di giuria, d'una sorta di "scabinato", nel quale i giudici popolari decidono - si fa per dire – insieme a due giudici togati solitamente esperti e ben motivati...
Rimane la garanzia della motivazione delle sentenze.
Ma debbo dire che I'uso del computer la sta insidiando. Perché?
Perché col sistema del "taglia e cuci" si sta diffondendo I'abitudine d'inserire nella sentenza lunghi brani del processo, con un'ampiezza tale che finisce per soffocare la comprensione del convincimento del giudice, peraltro insufficientemente espresso.
Per il resto, il panorama delle motivazioni non mi sembra che sia allettante.
Accanto a quelle di cui si è appena detto, non mancano quelle sommarie, né quelle cervellotiche - che la stampa diffonde quando le percepisce - e soprattutto quelle congetturali.
Le cause sono molteplici.
II Giudice alla ricerca della verità!
Anzitutto vi è una tendenza alla condanna degli imputati, che sorge - ed è psicologicamente comprensibile - dalla consapevolezza che I'ottanta per cento dei reati che si commettono è a carico d'ignoti.
Quindi, I'altro venti per cento attira una sorta di rivalsa.
Inoltre, I'istituto del libero convincimento spesso è male interpretato, quasi che quel convincimento fosse una stazione di arrivo e non una strada da percorrere per giungere alla certezza.
Poi la cosiddetta" ricerca della verità" è assegnata ancora, come nell'inquisizione, al giudice, che diviene così un protagonista, anziché un impassibile spettatore al di sopra delle parti, con I'impegno di misurare la validità delle prove da esse presentate.
Infine, la burocratizzazione del processo, con la frammentazione della raccolta delle prove in brevissime udienze a distanza di mesi I'una dall'altra, determina la perdita d'una visione unitaria e quindi la possibile valorizzazione di elementi disparati e secondari.
Ebbene, il controllo delle motivazioni dei giudici di merito da parte della Corte di Cassazione è stato problematico, specie prima che intervenisse la legge n. 46 del 2006.
Infatti, l'art. 606, lett. d) stabiliva che in tanto era possibile censurare "la mancanza o manifesta illogicità della motivazione" in quanto il vizio risultasse dal testo del provvedimento impugnato.
Ma era estremamente agevole per I'estensore eliminare da quel testo tutto ciò che potesse contrastare "manifestamente" con la tesi del giudice.
Solo con la modifica apportata dalla legge n . 46 del 2006 - che ha stabilito che i vizi previsti dall'art. 606, lett. d) potevano risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche "da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame" - si è data la possibilità di censurare i vizi nella motivazione, evitando ogni possibile sotterfugio.
Perché fu reintrodotto il travisamento del fatto
Tra parentesi va detto che questa opportuna modifica legislativa non è intervenuta a richiesta dell'avvocatura associata, bensì allorché fu tolta al PM la possibilità di appellare le sentenze di assoluzione degli imputati e quindi si provvide ad aumentare per il predetto - e ineluttabilmente anche per la altre parti - le risorse del ricorso per Cassazione.
Queste risorse poi rimasero, anche quando la Corte Costituzionale ripristinò I'appello del PM contro le sentenze di assoluzione degli imputati.
Questa volta su sollecitazione della magistratura associata!
L'altra censura sulle motivazioni che I'art. 606 prevede alla lett. d) è quella della "mancata assunzione di una prova decisiva quando la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso dell'istruzione dibattimentale, limitatamente ai casi previsti nell'art. 495, comma 2". Questo controllo è davvero problematico, poiché è facile esporsi all'accusa d'una censura in fatto, allorché si debba dimostrare la decisività di una prova, che ovviamente va messa in relazione alle altre risultanze processuali!
Il divieto di “inspicere in actis”
L'ostacolo maggiore all'effettivo sindacato sulla motivazione è rappresentato appunto dall'impossibilità di richiamare direttamente le risultanze processuali, nei casi in cui le sentenze non abbiano rispettato, quanto al loro contenuto, le regole stabilite dall'art. 546 cpp.
E' una difficoltà che si manifesta perfino in tema di travisamento del fatto.
Su tale tema esiste una contrastante giurisprudenza presso due Sezioni diverse della Corte: mentre secondo la Sesta è consentito I'esame degli atti, secondo la Terza il travisamento dev'essere riscontrato "tra le diverse proposizioni contenute nella motivazione stessa, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali".
Consigli ai giovani colleghi
Concludo rallegrandomi per la presenza di tanti giovani colleghi. A loro mi permetto di dare tre consigli.
Il primo è un consiglio generale: oltre ad un profondo studio del processo, non conviene porre dei limiti al tempo da dedicare alla meditazione degli argomenti difensivi: più è ampio e si protrae sino al momento della discussione, più subentrano idee nuove, qualche volta risolutive.
Secondo consiglio: occorre lasciare una traccia precisa di ogni questione che si solleva, prevedendo il ricorso per Cassazione sin dal giudizio di primo grado.
Terzo consiglio: il ricorso per cassazione dev’essere preparato soprattutto con i motivi di appello, oltre che ovviamente con i motivi di ricorso.
Poi, una volta giunti in Cassazione, bisogna comprendere che la causa non è più la stessa, bisogna vederla panoramicamente, frigido pacatoque animo, per individuare i due-tre punti che possono essere rivalutati in giudizio ben diverso da quelli precedenti.
Insomma, occorre prendere una certa distanza dalla causa e soprattutto da se stesso.

VI PRESENTO LA SIGNORA CASSAZIONE


“VI PRESENTO LA SIGNORA CASSAZIONE” (una lezione del compianto avv. Titta Mazzuca, pubblicata sulla rivista Gli Oratori del giorno del mese di febbraio 2009 ed allegata alla relazione delll'Osservatorio sulla Cassazione dell'UCPI presentata al Congresso di Torino dell'ottobre 2009)

domenica 25 marzo 2012

Disegno di Legge per la modifica del codice di procedura penale, in materia di esame incrociato e acquisizione delle sentenze irrevocabili.




DISEGNO DI LEGGE

d’iniziativa del senatore VALENTINO


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Modifica agli articoli 422, 468, 498, 499, 501, 506, 507, 525, 238-bis del codice di procedura penale, in materia di esame incrociato e acquisizione delle sentenze irrevocabili.

Onorevoli Colleghi! - L’esame incrociato nel processo penale è un momento fondante della formazione della prova che impone una regolamentazione più netta e rigorosa rispetto a quanto non sia previsto dal nostro codice di rito.
La struttura normativa attuale da l’impressione di risentire, fatalmente, della lunga attitudine al rito inquisitorio che permeava la cultura processuale penalistica di venti anni fa, talché il momento di acquisizione della prova dichiarativa appare una sorta di “ibrido” fra le esigenze del rito accusatorio contemplate dalla innovazione legislativa e quelle del processo inquisitorio.
Il presente disegno di legge interviene su alcuni articoli del c.p.p. per rendere l’interrogatorio incrociato coerente con l’impianto accusatorio del codice di rito.
In particolare sull’art.422 comma 3, ove senza una spiegazione compatibile con le scelte del sistema processuale, in caso di integrazione probatoria in udienza preliminare “l’audizione e l’interrogatorio delle persone indicate nel comma 2 sono condotti dal giudice. Il pubblico ministero e i difensori possono porre domande, a mezzo del giudice……”. Non si comprende perché, acquisito nel processo il metodo dell’esame incrociato, decisamente più idoneo a far emergere quel che la persona interrogata sa dei fatti di causa, l’assunzione probatoria davanti al GUP debba regredire a modalità antiquate proprie del vecchio rito, pur in presenza delle parti e senza nessuna vera difficoltà/controindicazione che imponga di non rispettare le regole previste per l’esame dibattimentale.
Inoltre, sull’art.468, comma 1: nonostante il chiaro dettato normativo preveda a pena di inammissibilità il deposito della lista “con la indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame”, la giurisprudenza da tempo si accontenta di formule di stile quali “sui fatti di causa”, o “su quanto dichiarato in s.i.t.”. In definitiva, si consente un’indicazione così generica da divenire pressoché superflua e sostanzialmente sottratta al vaglio del giudice che deve ammettere il mezzo di prova. Gli effetti di questa palese alterazione della voluntas legis si riverberano sia sulla (mancata) discovery, sia sulla stessa armonia dell’esame incrociato che vorrebbe, non senza ragione, delimitare l’esame e -conseguentemente - il controesame alle circostanze indicate e ammesse. Invece, grazie a questa “apertura”, esame e controesame rimangono illimitati e sregolati. Invero, se ci si riferisce genericamente ai fatti di causa, l’esame non ha limiti, e non ne ha nemmeno il controesame, posto che il controesaminatore non avrà conosciuto l’oggetto della testimonianza richiesta e, a sua volta, controesaminerà senza confini.
Tale prassi è stata, prevalentemente, introdotta dai pubblici ministeri, spesso pressati da una grande quantità di lavoro e perciò tendenzialmente propensi a sintesi che appaiono, però inaccettabili. Eppure è l’accusa a risentirne di più, dato che non sa, di solito, quel che sanno i testi della difesa, mentre questa conosce i testi a carico, le cui dichiarazioni si trovano nel fascicolo del P.M..
Ma il vero danno è per il processo, che non si giova certo della violazione di regole fisiologicamente garanti della legalità e del diritto di difesa.
Ulteriore modifica viene apportata all’art. 498 e precisamente al comma 1: quando più parti chiedono l’esame della stessa persona (imputato, testimone, o perito che sia ), è giusto, ma anche ragionevole, consentire al difensore dell’imputato, che ne faccia apposita istanza, di procedere per primo. Nella prassi, in qualche modo aiutata dalla genericità di quanto previsto dall’art.496 sull’ordine di assunzione delle prove, viceversa è sempre il P.M. a condurre per primo l’esame.
Al comma 3 il riesame spetta logicamente e chi procede all’esame, e non solo a chi lo chiede senza poi eseguirlo. Inoltre, le “nuove domande” in sede di riesame vanno meglio chiarite: non si tratta di domande nuove, che altrimenti l’esaminatore potrebbe sottrarre al controesame (ovvero dovrebbe consentirsi un altro controesame, potenzialmente all’infinito); bensì di domande scaturenti dal controesame e non poste durante l’esame. Tali domande dovranno, comunque, vertere sulle circostanze indicate nella lista di cui all’art.468 1°comma .
Ne consegue il collegamento espresso dell’inammissibilità, che oggi per prassi punisce solo le liste non tempestive, anche all’indicazione generica delle circostanze.

Al Comma 4, l’esame testimoniale del minorenne è previsto venga condotto dal giudice su domande e contestazioni proposte dalle parti, anche se è possibile autorizzare l’esame diretto quando si ritenga che esso non possa nuocere alla sua serenità dello stesso minore.
Orbene, non si dubita della necessità di privilegiare soprattutto le esigenze del minorenne; non si comprende, però, il motivo per cui qualora si decida di rinunciare ad un’assunzione probatoria in linea con gli attuali principi, debba scontarne le conseguenze l’imputato che non ha potuto (far) interrogare il teste che lo accusa, come pure vorrebbe l’art.111 della Costituzione. Ne consegue che le dichiarazioni assunte in queste forme possano essere poste a fondamento di una condanna solo se adeguatamente riscontrate.
Nei casi di privazione di questo sacrosanto diritto difensivo, deve essere, allora, il giudizio a soffrirne, non l’imputato che, altrimenti, viene trattato da presunto colpevole.
All’art. 499, comma 3: le domande che tendono a suggerire le risposte sono vietate a chi ha chiesto la citazione “del testimone “.
Il giudice che accolga l’opposizione a una domanda suggestiva spesso invita l’esaminatore a riformularla (e comunque glielo permette), così vanificando il divieto normativo. Deve, dunque, vietarsi espressamente la riformulazione, riservando al giudice la facoltà di tornare sulla circostanza –ovviamente, senza fare domande suggestive- sempre che lo ritenga indispensabile, al termine dell’esame incrociato, ex art.506, comma 2.
All’art.501sarebbe opportuno, di fronte a certe prassi devianti, precisare che periti e consulenti hanno la facoltà di partecipare al dibattimento anche prima del loro esame. Essi, inoltre, non dovrebbero “giurare” sul contenuto delle loro valutazioni tecniche, a meno che non debbano riferire circostanze di fatto, nel qual caso assumono anche la veste di testimoni; solo limitatamente a queste circostanze, essi sono tenuti a prestare il giuramento di rito.
Con la nuova formulazione dell’art.506, a tutela della irrinunciabile limitazione degli interventi del Giudice, si chiarisce come questi non possa intervenire nel corso dell’esame fuori dai casi previsti dall’art.499, comma 6, e che, prima di rivolgere domande alla persona esaminata (comma 2), debba – a pena di inutilizzabilità delle risposte - indicare alle parti “temi di prova nuovi o i più ampi , utili per la completezza dell’esame” (comma 1). Al giudice dovrebbero espressamente vietarsi le domande suggestive, naturalmente consentite esclusivamente al controesaminatore, proprio in ragione della sua esigenza di valutare l’attendibilità della persona esaminata.
Inoltre, all’art.507 per evitare evidenti forzature e disarmonie, che a dir poco vanificano le regole delle richieste di prova e delle loro scanzioni temporali, dovrebbe specificarsi che l’integrazione probatoria è consentita soprattutto ove sia decisiva per una sentenza assolutoria. Invero, se l’Accusa non ha dimostrato il suo assunto, ovvero non rimane non provata la sua tesi, il giudice deve emettere sentenza di assoluzione, se del caso ex art.530, comma 2. Dovrebbe, comunque, consentirsi alle parti, al termine del dibattimento, la proposizione di nuove prove scaturenti dall’ammissione della nuova prova.
All’art. 525 diviene indispensabile, a fronte delle storture della prassi, prevedere che la rinnovazione dibattimentale, in assenza di consenso delle parti alla lettura delle dichiarazioni acquisite dinanzi all’ufficio giudiziario la cui composizione sia mutata, debba essere piena ed effettiva, non potendosi utilizzare le dette dichiarazioni senza aver proceduto a nuovo esame.
Infine, proprio l’esigenza di una valutazione genuina ed assolutamente autonoma dei fatti sottoposti alla cognizione del giudice impone che il giudizio non subisca condizionamenti di sorta, sia pure attraverso accertamenti giudiziari realizzatisi in altri contesti processuali collegati.
Ogni giudice deve rendere giustizia con la propria sensibilità, la propria cultura, la propria percezione degli eventi che deve esaminare nel contraddittorio delle parti senza subire l’inevitabile influenza di un giudizio che altri hanno espresso in vicende, sia pure connesse.
Per queste ragioni si impone la riscrittura dell’art. 238-bis del codice di procedura penale, riducendo, di conseguenza, la deroga al principio del contraddittorio nel momento formativo della prova; contraddittorio che, con il presente disegno di legge nel suo complesso, si tende ad esaltare al massimo nel rispetto di quanto puntualmente imposto dall’art. 111 della Costituzione.
DISEGNO DI LEGGE

Art. 1

  1. All'articolo 422 del codice di procedura penale il comma 3 è sostituito dal seguente:
“3. L’esame delle persone indicate al comma 2 viene condotto con le modalità e secondo le regole di cui agli articoli 498 e seguenti. Successivamente, il pubblico ministero e i difensori formulano e illustrano le rispettive conclusioni.”


Art. 2
  1. All'articolo 498 del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  1. il comma 1 è sostituito dal seguente:
"1. Le domande sono rivolte direttamente dal pubblico ministero o dal difensore che ha chiesto l’esame del testimone. Se l’esame della stessa persona viene ammesso a richiesta anche del difensore dell’imputato e questo ne formula esplicita richiesta, esso viene condotto per primo dal difensore.";
  1. il comma 3 è sostituito dal seguente:
"3. Chi ha svolto l’esame può procedere al riesame, ponendo domande scaturenti dal controesame e non poste in precedenza. Non sono ammesse domande che introducono temi nuovi.";
  1. al comma 4 è aggiunto, in fine, il seguente periodo:
"L’esame condotto dal solo Presidente, senza un effettivo contraddittorio tra le
parti può essere posto a fondamento di una condanna esclusivamente se le
dichiarazioni del minore vengono supportate da idonei riscontri probatori."
Art. 3

  1. All'articolo 499 del codice di procedura penale, al comma 3, sono aggiunti i seguenti periodi:
“Esse sono vietate anche al giudice. Le domande vietate, oggetto di opposizione accolta dal giudice, non possono essere riproposte nemmeno correttamente dalla parte che l’ha proposta e da quella che ha un interesse comune. Il giudice che ritiene necessario approfondire la relativa circostanza può chiedere, ex articolo 506, comma 2, alla persona esaminata i chiarimenti del caso.”

Art. 4

  1. All'articolo 501 del codice di procedura penale, al comma 1, è aggiunto il seguente periodo:
“I periti e i consulenti tecnici possono assistere all’istruzione dibattimentale anche prima del loro esame. Essi prestano il giuramento di rito solo quando rivestono anche la funzione di testimoni e limitatamente alle circostanze relative.”

Art. 5

  1. All'articolo 506 del codice di procedura penale, il comma 2 è sostituito dal seguente:
“2. Il presidente, solo al termine dell'esame incrociato ed esclusivamente dopo aver proceduto all'indicazione di cui al comma precedente, anche su richiesta di altro componente del collegio può rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici, alle persone indicate nell'articolo 210 ed alle parti già esaminate. Resta salvo il diritto delle parti di concludere l'esame secondo l'ordine indicato negli articoli 498, commi 1 e 2 e 503, comma 2.”


Art. 6

  1. All'articolo 507 del codice di procedura penale, il comma 1 è sostituito dal seguente:
“1. Terminata l'acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario al fine di approfondire circostanze utili per una sentenza di assoluzione, può disporre, anche d'ufficio, l'assunzione di nuovi mezzi di prove. In questo caso, le parti possono richiedere nuove prove.”


Art. 7

  1. All'articolo 525 del codice di procedura penale il comma 2 è sostituito dal seguente:
“2. Alla deliberazione concorrono, a pena di nullità, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento. Quando il dibattimento deve essere rinnovato in seguito al mutamento del giudice, è necessario procedere al nuovo esame di tutte le persone esaminate in precedenza; tuttavia, con il consenso delle parti possono utilizzarsi, anche ai fini probatori e senza un nuovo esame, i verbali degli esami precedenti. Se alla deliberazione devono concorrere i giudici supplenti in sostituzione dei titolari impediti, i provvedimenti già emessi conservano efficacia se non sono espressamente revocati.”



Art. 8
  1. L’art. 238-bis è sostituito dal seguente:
“Art. 238 bis – (Sentenze irrevocabili). – 1. Fermo quanto previsto dall’articolo 236 soltanto nei procedimenti relativi ai delitti di cui agli articoli 51, commi 3-bis e 3-quater, e 407, comma 2, lettera a), le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova del fatto in esse accertato e sono valutate a norma degli articoli 187 e 192, comma 3.”

Disegno di Legge per la modifica del codice di procedura penale, in materia di esame incrociato e acquisizione delle sentenze irrevocabili.





DISEGNO DI LEGGE

d’iniziativa del senatore VALENTINO


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Modifica agli articoli 422, 468, 498, 499, 501, 506, 507, 525, 238-bis del codice di procedura penale, in materia di esame incrociato e acquisizione delle sentenze irrevocabili.


DISEGNO DI LEGGE - On. Valentino

XVI Legislatura


DISEGNO DI LEGGE

d’iniziativa del senatore VALENTINO


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Modifica agli articoli 422, 468, 498, 499, 501, 506, 507, 525, 238-bis del codice di procedura penale, in materia di esame incrociato e acquisizione delle sentenze irrevocabili.


Onorevoli Colleghi! - L’esame incrociato nel processo penale è un momento fondante della formazione della prova che impone una regolamentazione più netta e rigorosa rispetto a quanto non sia previsto dal nostro codice di rito.
La struttura normativa attuale da l’impressione di risentire, fatalmente, della lunga attitudine al rito inquisitorio che permeava la cultura processuale penalistica di venti anni fa, talché il momento di acquisizione della prova dichiarativa appare una sorta di “ibrido” fra le esigenze del rito accusatorio contemplate dalla innovazione legislativa e quelle del processo inquisitorio.
Il presente disegno di legge interviene su alcuni articoli del c.p.p. per rendere l’interrogatorio incrociato coerente con l’impianto accusatorio del codice di rito.
In particolare sull’art.422 comma 3, ove senza una spiegazione compatibile con le scelte del sistema processuale, in caso di integrazione probatoria in udienza preliminare “l’audizione e l’interrogatorio delle persone indicate nel comma 2 sono condotti dal giudice. Il pubblico ministero e i difensori possono porre domande, a mezzo del giudice……”. Non si comprende perché, acquisito nel processo il metodo dell’esame incrociato, decisamente più idoneo a far emergere quel che la persona interrogata sa dei fatti di causa, l’assunzione probatoria davanti al GUP debba regredire a modalità antiquate proprie del vecchio rito, pur in presenza delle parti e senza nessuna vera difficoltà/controindicazione che imponga di non rispettare le regole previste per l’esame dibattimentale.
Inoltre, sull’art.468, comma 1: nonostante il chiaro dettato normativo preveda a pena di inammissibilità il deposito della lista “con la indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame”, la giurisprudenza da tempo si accontenta di formule di stile quali “sui fatti di causa”, o “su quanto dichiarato in s.i.t.”. In definitiva, si consente un’indicazione così generica da divenire pressoché superflua e sostanzialmente sottratta al vaglio del giudice che deve ammettere il mezzo di prova. Gli effetti di questa palese alterazione della voluntas legis si riverberano sia sulla (mancata) discovery, sia sulla stessa armonia dell’esame incrociato che vorrebbe, non senza ragione, delimitare l’esame e -conseguentemente - il controesame alle circostanze indicate e ammesse. Invece, grazie a questa “apertura”, esame e controesame rimangono illimitati e sregolati. Invero, se ci si riferisce genericamente ai fatti di causa, l’esame non ha limiti, e non ne ha nemmeno il controesame, posto che il controesaminatore non avrà conosciuto l’oggetto della testimonianza richiesta e, a sua volta, controesaminerà senza confini.
Tale prassi è stata, prevalentemente, introdotta dai pubblici ministeri, spesso pressati da una grande quantità di lavoro e perciò tendenzialmente propensi a sintesi che appaiono, però inaccettabili. Eppure è l’accusa a risentirne di più, dato che non sa, di solito, quel che sanno i testi della difesa, mentre questa conosce i testi a carico, le cui dichiarazioni si trovano nel fascicolo del P.M..
Ma il vero danno è per il processo, che non si giova certo della violazione di regole fisiologicamente garanti della legalità e del diritto di difesa.
Ulteriore modifica viene apportata all’art. 498 e precisamente al comma 1: quando più parti chiedono l’esame della stessa persona (imputato, testimone, o perito che sia ), è giusto, ma anche ragionevole, consentire al difensore dell’imputato, che ne faccia apposita istanza, di procedere per primo. Nella prassi, in qualche modo aiutata dalla genericità di quanto previsto dall’art.496 sull’ordine di assunzione delle prove, viceversa è sempre il P.M. a condurre per primo l’esame.
Al comma 3 il riesame spetta logicamente e chi procede all’esame, e non solo a chi lo chiede senza poi eseguirlo. Inoltre, le “nuove domande” in sede di riesame vanno meglio chiarite: non si tratta di domande nuove, che altrimenti l’esaminatore potrebbe sottrarre al controesame (ovvero dovrebbe consentirsi un altro controesame, potenzialmente all’infinito); bensì di domande scaturenti dal controesame e non poste durante l’esame. Tali domande dovranno, comunque, vertere sulle circostanze indicate nella lista di cui all’art.468 1°comma .
Ne consegue il collegamento espresso dell’inammissibilità, che oggi per prassi punisce solo le liste non tempestive, anche all’indicazione generica delle circostanze.

Al Comma 4, l’esame testimoniale del minorenne è previsto venga condotto dal giudice su domande e contestazioni proposte dalle parti, anche se è possibile autorizzare l’esame diretto quando si ritenga che esso non possa nuocere alla sua serenità dello stesso minore.
Orbene, non si dubita della necessità di privilegiare soprattutto le esigenze del minorenne; non si comprende, però, il motivo per cui qualora si decida di rinunciare ad un’assunzione probatoria in linea con gli attuali principi, debba scontarne le conseguenze l’imputato che non ha potuto (far) interrogare il teste che lo accusa, come pure vorrebbe l’art.111 della Costituzione. Ne consegue che le dichiarazioni assunte in queste forme possano essere poste a fondamento di una condanna solo se adeguatamente riscontrate.
Nei casi di privazione di questo sacrosanto diritto difensivo, deve essere, allora, il giudizio a soffrirne, non l’imputato che, altrimenti, viene trattato da presunto colpevole.
All’art. 499, comma 3: le domande che tendono a suggerire le risposte sono vietate a chi ha chiesto la citazione “del testimone “.
Il giudice che accolga l’opposizione a una domanda suggestiva spesso invita l’esaminatore a riformularla (e comunque glielo permette), così vanificando il divieto normativo. Deve, dunque, vietarsi espressamente la riformulazione, riservando al giudice la facoltà di tornare sulla circostanza –ovviamente, senza fare domande suggestive- sempre che lo ritenga indispensabile, al termine dell’esame incrociato, ex art.506, comma 2.
All’art.501sarebbe opportuno, di fronte a certe prassi devianti, precisare che periti e consulenti hanno la facoltà di partecipare al dibattimento anche prima del loro esame. Essi, inoltre, non dovrebbero “giurare” sul contenuto delle loro valutazioni tecniche, a meno che non debbano riferire circostanze di fatto, nel qual caso assumono anche la veste di testimoni; solo limitatamente a queste circostanze, essi sono tenuti a prestare il giuramento di rito.
Con la nuova formulazione dell’art.506, a tutela della irrinunciabile limitazione degli interventi del Giudice, si chiarisce come questi non possa intervenire nel corso dell’esame fuori dai casi previsti dall’art.499, comma 6, e che, prima di rivolgere domande alla persona esaminata (comma 2), debba – a pena di inutilizzabilità delle risposte - indicare alle parti “temi di prova nuovi o i più ampi , utili per la completezza dell’esame” (comma 1). Al giudice dovrebbero espressamente vietarsi le domande suggestive, naturalmente consentite esclusivamente al controesaminatore, proprio in ragione della sua esigenza di valutare l’attendibilità della persona esaminata.
Inoltre, all’art.507 per evitare evidenti forzature e disarmonie, che a dir poco vanificano le regole delle richieste di prova e delle loro scanzioni temporali, dovrebbe specificarsi che l’integrazione probatoria è consentita soprattutto ove sia decisiva per una sentenza assolutoria. Invero, se l’Accusa non ha dimostrato il suo assunto, ovvero non rimane non provata la sua tesi, il giudice deve emettere sentenza di assoluzione, se del caso ex art.530, comma 2. Dovrebbe, comunque, consentirsi alle parti, al termine del dibattimento, la proposizione di nuove prove scaturenti dall’ammissione della nuova prova.
All’art. 525 diviene indispensabile, a fronte delle storture della prassi, prevedere che la rinnovazione dibattimentale, in assenza di consenso delle parti alla lettura delle dichiarazioni acquisite dinanzi all’ufficio giudiziario la cui composizione sia mutata, debba essere piena ed effettiva, non potendosi utilizzare le dette dichiarazioni senza aver proceduto a nuovo esame.
Infine, proprio l’esigenza di una valutazione genuina ed assolutamente autonoma dei fatti sottoposti alla cognizione del giudice impone che il giudizio non subisca condizionamenti di sorta, sia pure attraverso accertamenti giudiziari realizzatisi in altri contesti processuali collegati.
Ogni giudice deve rendere giustizia con la propria sensibilità, la propria cultura, la propria percezione degli eventi che deve esaminare nel contraddittorio delle parti senza subire l’inevitabile influenza di un giudizio che altri hanno espresso in vicende, sia pure connesse.
Per queste ragioni si impone la riscrittura dell’art. 238-bis del codice di procedura penale, riducendo, di conseguenza, la deroga al principio del contraddittorio nel momento formativo della prova; contraddittorio che, con il presente disegno di legge nel suo complesso, si tende ad esaltare al massimo nel rispetto di quanto puntualmente imposto dall’art. 111 della Costituzione.
DISEGNO DI LEGGE

Art. 1

  1. All'articolo 422 del codice di procedura penale il comma 3 è sostituito dal seguente:
3. L’esame delle persone indicate al comma 2 viene condotto con le modalità e secondo le regole di cui agli articoli 498 e seguenti. Successivamente, il pubblico ministero e i difensori formulano e illustrano le rispettive conclusioni.”


Art. 2
  1. All'articolo 498 del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  1. il comma 1 è sostituito dal seguente:
"1. Le domande sono rivolte direttamente dal pubblico ministero o dal difensore che ha chiesto l’esame del testimone. Se l’esame della stessa persona viene ammesso a richiesta anche del difensore dell’imputato e questo ne formula esplicita richiesta, esso viene condotto per primo dal difensore.";
  1. il comma 3 è sostituito dal seguente:
"3. Chi ha svolto l’esame può procedere al riesame, ponendo domande scaturenti dal controesame e non poste in precedenza. Non sono ammesse domande che introducono temi nuovi.";
  1. al comma 4 è aggiunto, in fine, il seguente periodo:
"L’esame condotto dal solo Presidente, senza un effettivo contraddittorio tra le
parti può essere posto a fondamento di una condanna esclusivamente se le
dichiarazioni del minore vengono supportate da idonei riscontri probatori."
Art. 3

  1. All'articolo 499 del codice di procedura penale, al comma 3, sono aggiunti i seguenti periodi:
Esse sono vietate anche al giudice. Le domande vietate, oggetto di opposizione accolta dal giudice, non possono essere riproposte nemmeno correttamente dalla parte che l’ha proposta e da quella che ha un interesse comune. Il giudice che ritiene necessario approfondire la relativa circostanza può chiedere, ex articolo 506, comma 2, alla persona esaminata i chiarimenti del caso.”

Art. 4

  1. All'articolo 501 del codice di procedura penale, al comma 1, è aggiunto il seguente periodo:
I periti e i consulenti tecnici possono assistere all’istruzione dibattimentale anche prima del loro esame. Essi prestano il giuramento di rito solo quando rivestono anche la funzione di testimoni e limitatamente alle circostanze relative.”

Art. 5

  1. All'articolo 506 del codice di procedura penale, il comma 2 è sostituito dal seguente:
2. Il presidente, solo al termine dell'esame incrociato ed esclusivamente dopo aver proceduto all'indicazione di cui al comma precedente, anche su richiesta di altro componente del collegio può rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici, alle persone indicate nell'articolo 210 ed alle parti già esaminate. Resta salvo il diritto delle parti di concludere l'esame secondo l'ordine indicato negli articoli 498, commi 1 e 2 e 503, comma 2.”


Art. 6

  1. All'articolo 507 del codice di procedura penale, il comma 1 è sostituito dal seguente:
1. Terminata l'acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario al fine di approfondire circostanze utili per una sentenza di assoluzione, può disporre, anche d'ufficio, l'assunzione di nuovi mezzi di prove. In questo caso, le parti possono richiedere nuove prove.”


Art. 7

  1. All'articolo 525 del codice di procedura penale il comma 2 è sostituito dal seguente:
2. Alla deliberazione concorrono, a pena di nullità, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento. Quando il dibattimento deve essere rinnovato in seguito al mutamento del giudice, è necessario procedere al nuovo esame di tutte le persone esaminate in precedenza; tuttavia, con il consenso delle parti possono utilizzarsi, anche ai fini probatori e senza un nuovo esame, i verbali degli esami precedenti. Se alla deliberazione devono concorrere i giudici supplenti in sostituzione dei titolari impediti, i provvedimenti già emessi conservano efficacia se non sono espressamente revocati.”



Art. 8
  1. L’art. 238-bis è sostituito dal seguente:
Art. 238 bis – (Sentenze irrevocabili). – 1. Fermo quanto previsto dall’articolo 236 soltanto nei procedimenti relativi ai delitti di cui agli articoli 51, commi 3-bis e 3-quater, e 407, comma 2, lettera a), le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova del fatto in esse accertato e sono valutate a norma degli articoli 187 e 192, comma 3.”

giovedì 22 marzo 2012

Audizione del Procuratore generale della Corte di Cassazione in merito al disegno di legge costituzionale del Governo, n. 4275/C, recante "Riforma del titolo IV della parte II della Costituzione" (13 giugno 2011).


Dott. Vitaliano Esposito - PG presso la Corte di Cassazione

Audizione del Procuratore generale della Corte di Cassazione davanti alle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati, in merito al disegno di legge costituzionale del Governo, n. 4275/C, recante "Riforma del titolo IV della parte II della Costituzione" (13 giugno 2011). 

CONTRIBUTO DEL PROCURATORE GENERALE
VITALIANO ESPOSITO
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1. Vi sono molto grato per l’occasione che mi è offerta di esprimere il mio punto di vista – o, meglio, le mie riflessioni – su di un progetto di riforma costituzionale che concerne soprattutto il ruolo e la posizione istituzionale del pubblico ministero.

Per un dovere di obiettività e di lealtà verso i magistrati dell’ufficio che ho l’onore di dirigere, ho promosso una riunione che ha consentito un ampio e articolato dibattito su vari aspetti di una tematica che è di una complessità tale da apparire, a prima vista, inestricabile.

Pongo a vostra disposizione il documento conclusivo che riassume le preoccupazioni e le considerazioni critiche, coralmente esposte.

Pur condividendo, specie sotto l’aspetto tecnico, gran parte delle predette valutazioni, ritengo tuttavia doveroso esporre alcune riflessioni sulle linee di fondo del progetto di riforma (e non, quindi, sulle sue modalità tecniche di attuazione), quale contributo utile al dibattito.

2. Contributo reso con spirito di confronto, senza opposte pregiudiziali e posizioni rigidamente precostituite, come auspicato dal Capo dello Stato.

Contributo che ritengo doveroso sotto due profili, uno istituzionale, l’altro di riconoscenza.

2.1. Nei miei interventi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario ho reiteratamente denunciato alcuni aspetti di una situazione di sostanziale ingiustizia in cui versa il nostro Paese.

Ciò m’impone di fornire, un apporto contributo costruttivo a un dibattito sulle misure che sono dal legislatore ritenute utili o necessarie, pur dovendo segnalare la settorialità dell’intervento; la non attribuibilità alla figura del pubblico ministero di tutte le disfunzioni del sistema; la non accettabilità di una dequotazione delle garanzie o, se si preferisce, la decostituzionalizzazione dei fondamentali principi che lo tutelano.

Non è questa una difesa corporativa, dovendo necessariamente limitare il mio contributo al punto decisivo della questione: all’esame, cioè, della proposta di separazione delle carriere quale condizione per l’attuazione di un giusto processo, tenendo conto della situazione di indipendenza del pubblico ministero e dell’incognita legata ad una espansione del suo ruolo.

2.2. L’altro motivo per cui ritengo doveroso il mio contributo si sostanzia nella riconoscenza E ponendo al servizio anche la mia quarantennale esperienza nelle più prestigiose assise internazionali sul funzionamento della giustizia penale.

Ho avuto, infatti, il grande onore, tra l’altro:

di aver partecipato, per lo più in qualità di capo della delegazione italiana, a New York, ai lavori preparatori dello Statuto della Corte penale internazionale, facendo parte, dapprima, del Comitato ad hoc (1995) e, quindi, del Comitato preparatorio per la istituzione della Corte (1996-1997) e partecipando, infine, alla Conferenza diplomatica del 1998;

di essere stato designato dal Comitato europeo per i problemi criminali, quale esperto scientifico incaricato, nell’ambito di un comitato internazionale ad hoc, della elaborazione e della redazione della Raccomandazione n. 19 del 2000 del Comitato dei ministri del Consiglio d’ Europa;

di aver convocato a Roma, dal 26 al 28 maggio u.s.,nella mia qualità di Presidente della relativa Rete, la Conferenza dei procuratori generali dell’Unione europea.

3. L’uno e l’altro strumento internazionale assumono carattere decisivo per tracciare le linee-guida che in questa sede interessano, mentre le conclusioni della Conferenza sulpubblico ministero quale organo di giustizia e promotore dei diritti umaniautonomo e responsabile, indicano il ruolo comune verso cui convergono in Europa le autorità incaricate dell’esercizio dell’azione penale.

3.1. Lo Statuto, cui hanno sinora aderito 115 Stati, sancisce non solo il principio di indipendenza, oggettiva e soggettiva e quello di imparzialità, tanto dei giudici che dei procuratori, ma anche l’autonomia organica dell’Ufficio del Procuratore da quello della Corte (art. 42).

3.2. D’altra parte, nel suo magistrale intervento svolto a Roma il 27 maggio u.s., nel corso della IV Conferenza dei Procuratori generali dell’Unione europea, Thomas Hammarberg, Commissario per i diritti umani del Consiglio d’ Europa, ha detto che occorre gettare un muro di sicurezza (firewall) tra pubblico ministero e giudice ed ha riferito di avere dalla sua esperienza imparato come la separazione dei poteri tra tali organi sia cruciale anche per gettare le basi per l’eguaglianza delle armi nell’intero sistema.

A ben vedere le preoccupazioni del Commissario concernono, da un lato, l’attuazione di un giusto processo e, dall’altro, l’incognita in ordine all’espansione del ruolo del pubblico ministero:

a) sotto il primo profilo esse sono in linea con la giurisprudenza della Corte europea che, sin dalla storica sentenza Delcourt (17 gennaio 1970) ha sempre ammonito che l’égalité des armesprincipio fondamentale del giusto processo, mira a garantire l’eguaglianza delle parti dinanzi al giudice ed a proteggere l’effettività del dibattito contraddittorio; garanzia specifica che si aggiunge a quelle generali concernenti il diritto ad un tribunale indipendente ed imparziale. Il primo diritto si apprezza da un duplice punto di vista, perché l’indipendenza deve esistere nei riguardi sia del potere esecutivo che delle parti, e, quindi, anche, del pubblico ministero. Il secondo diritto, che si apprezza dal punto di vista sia soggettivo che oggettivo può prendere in considerazione, sotto quest’ultimo aspetto, anche le apparenze di imparzialità.

b) sotto il secondo profilo esse concernono le inquietudine che sul piano della stabilità del sistema democratico ha sempre suscitato la figura dell’inquirente e che sono oggi ancor presenti in alcuni Paesi dell’ Est. Esse concernono – ha detto il Commissario – il rischio che un pubblico ministero troppo forte possa trasformarsi in un quarto potere senza obbligo di rendiconto.

Le preoccupazioni del Commissario formano addirittura oggetto di un rapporto ad hoc sul pubblico ministero. Quello, di recentissima pubblicazione, elaborato dalla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto – la cd. Commissione di Venezia - e costituente la seconda parte delle norme europee concernenti l’indipendenza del sistema giudiziario (testo adottato a Venezia il 17-18 dicembre 2010), il quale dedica un apposito capitolo ai rischi del potere eccessivo dei pubblici ministeri per l’indipendenza del sistema giudiziario (§§ 71-76).

Il Rapporto della Commissione esamina i principali modelli di organizzazione del pubblico ministero e riconosce espressamente che la Raccomandazione n. 19 del 2000 del Comitato dei ministri del Consiglio d’ Europa costituisce il fondamentale documento cui tutti i Paesi d’Europa devono ispirarsi in sede di riforma.

Questo strumento non privilegia alcun modello di pubblico ministero, sia esso dipendente o meno dall’esecutivo o, comunque, a lui subordinato.

Esso lascia gli Stati liberi di seguire la loro tradizione e le loro scelte di politica criminale, indicando, però, rigorosamente le condizioni che devono in concreto osservarsi perché il modello adottato costituisca un fattore di stabilità democratica.

E possa, comunque, assicurare, nel procedimento, il contraddittorio, nel rispetto di quel principio dell’ egalité des armes tra l’accusa e la difesa, che costituisce una delle componenti essenziali del giusto processo.

4. L’ esame della compatibilità della proposta di riforma con i canoni della Raccomandazione e con le altre linee in precedenza indicate non può essere effettuata in astratto.

Se si operasse in tal modo, si opererebbe tratterebbe una esercitazione accademica, con conclusioni alla Candide di Voltaire: il mio sistema è il migliore possibile e se c’è qualcosa di negativo, questo esiste per un motivo preciso e non può essere altrimenti .

4.1. Essa deve essere effettuata in concreto, tenendo conto del contesto, cioè della situazione italiana.

Della situazione italiana nel suo divenire, quale cioè, essa era al momento della scelta iniziale, ossia al momento della Costituzione, e quale essa oggi si presenta.

Per ciascun momento esaminando e comparando, in filigrana, la situazione processuale (sistema inquisitorio o accusatorio) con la situazione ordinamentale.

E per ciascun momento comparando il complessivo contesto italiano con quello dei Paesi con il nostro presentando una affinità di scelte processuali ed ordinamentali.

4.1. Sotto quest’ultima prospettiva il punto di partenza dell’analisi dovrebbe mirare ad accertare:

- se è vero che il nostro pubblico ministero é l’unico — tra ordinamenti sia di civil law sia di common law – ad essere indipendente dall’esecutivo.

- se è vero che esso é l'unico che — in un ordinamento processuale di tipo accusatorio – fa parte dell’ordine giudiziario, come avviene solo negli ordinamenti processuali di tipo inquisitorio.

Stabilito che il nostro pubblico ministero è indipendente dall’esecutivo e fa parte dell’ordine giudiziario, occorre chiedersene le ragioni storiche e la perdurante loro validità.

4.2. Generalmente si dice che iI costituente preferì una soluzione di compromesso, agevolata dalla sostanziale sfiducia nella magistratura da parte dei partiti di sinistra, favorevoli a forme di controllo politico sui giudici e quale correttivo del sistema previde il principio di obbligatorietà dell’azione penale.

4.3. Non interessa in questa sede chiarire se, come pure si dice, fu geniale, per quei tempi, l’armonia compromissoria raggiunta da De Gasperi e Togliatti.

Quello che interessa è che rispetto al passato - il che vuol dire non solo rispetto al codice Rocco, ma alla nostra tradizione risalente al codice napoleonico – fu innovato solo in ordine al principio allora vigente della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo.

La questione della separazione delle funzioni o delle carriere non fu nemmeno sfiorata, perché all’epoca non poteva neanche essere ipotizzata.

In un sistema inquisitorio che pubblico ministero e il giudice facciano parte di un corpo unico è razionale ed addirittura ovvio.

Così come in un processo accusatorio – in un processo, cioè, di parti – sembrerebbe ovvio il contrario, con la conseguenza che il problema della separazione delle carriere si sarebbe dovuto porre al momento dell’adozione del nuovo codice e, al più tardi, al momento della costituzionalizzazione del giusto processo.

5. La situazione attuale impone una serena riflessione.

5.1. Riflessione che non concerne, però, il principio dell’indipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo.

Se, invero, il diritto ad un giusto processo non è concepibile se il giudice non è indipendente da ogni altro potere, così il diritto ad un giusto processo – e a una giusta indagine che lo precede – non è concepibile se il pubblico ministero non è indipendente da ogni altro potere.

Se vi sono condizionamenti all’inizio dell’indagine, si smarrisce il significato dell’autonomia al momento della decisione.

Il valore dell’indipendenza – da noi conquistato al momento della Costituzione e per altri Paesi costituente un obiettivo da raggiungere – deve essere salvaguardato.

E questo valore deve, a maggior ragione, essere salvaguardato nel momento in cui le linee della giurisprudenza di Strasburgo indicano che il giusto processo deve scaturire dalla giusta azione del pubblico ministero.

Nel momento in cui la Convenzione europea vede il pubblico ministero come uno dei principali destinatari degli obblighi positivi che essa impone in un giusto processo, risulta evidente che tali obblighi possono essere adempiuti sono da un pubblico ministero indipendente, che sia subordinato soltanto alla legge.
Tra tali obblighi basilare è quello di salvaguardare, nelle indagini come nel processo, la dignità ed i diritti di tutte le parti, ivi compresi, ovviamente, quelli della vittima, che ha il diritto di intervenire nel processo ricostruttivo dei fatti.

Il pubblico ministero è così divenuto autonomo organo di giustizia, promotore dei diritti umani.

E la sua posizione e tutela costituzionale non può essere garantita con la tecnica normativa del rinvio alla legge ordinaria.

Autonomia e indipendenza del pubblico ministero da ogni altro potere sono principi che non possono essere decostituzionalizzati o surrettiziamente aggirati.

5.2. La necessità della riflessione concerne, invece, la questione della perdurante appartenenza di giudice e pubblico ministero ad uno stesso ordine.
La riflessione concerne, in particolare, gli effetti di una riforma del codice basata sull’adozione di un sistema accusatorio (tipico degli ordinamenti di common law), ma non accompagnata da riforme ordinamentali.

Riforme, invece, adottate in Portogallo, che pure si è munito di codice di rito che è una pedissequa traduzione del nostro codice dell’89 (ed è ivi entrato in vigore sin dal 1988) e che si è dotato di due Consigli superiori (uno per i giudici, l’altro per i procuratori).

Riflessione – sinora mancata – sulle ragioni per cui la Francia, che pure ha conservato il sistema inquisitorio in un ordinamento di civil law, si è dotato di una doppia formazione (uno per i giudici, l’altro per i pubblici ministeri) nell’ambito di un unico Consiglio superiore della magistratura.

5.3. Orbene, se si riflette, appaiono, a mio avviso, evidenti le ragioni della differente disciplina.

In Portogallo sono stati istituiti due autonomi organi di autotutela perché il pubblico ministero non fa più parte dell’ordine giudiziario.

In Francia è stato conservato il solo organo di autotutela con due sezioni perché il pubblico ministero fa ancora parte dell’ordine giudiziario ma è stata riconosciuta la diversità delle funzioni.

Si tratta di scelte coerenti anche perché diverso è il rapporto che si è venuto a determinare tra il giudice e il pubblico ministero nei rispettivi ordinamenti.

5.4. Il distacco, la netta separazione tra il giudice e l’organo che esercita l’azione penale è, infatti, connaturata con gli ordinamenti di common law (o, comunque, ad essi assimilabili)

Distacco che non è solo funzionale alle esigenze del sistema accusatorio ma costituisce elemento strutturale a quel modello.

Modello caratterizzato, in linea generale, da una rigida separazione tra polizia (che ricerca elementi di accusa), attorney o figura analoga (che valuta in autonomia l’utilizzabilità di tali elementi) e giudice, dinanzi a cui si forma, nel contraddittorio tra le parti, la prova.


Separazione che non esiste nel nostro sistema in cui il pubblico ministero forma un blocco monolitico con la polizia ed assume funzioni inquisitorie nella fase delle indagini preliminari e funzione di parte nella fase dibattimentale, con la conseguenza che le species del pubblico ministero e del giudice risultano ontologicamente diverse.

Nelle scuole insegnano – e non è leggenda – che se un attorney, per caso, entra nello stesso ascensore del giudice, quest’ultimo non può, quel giorno, esaminare alcun caso cui é interessato quell’attorney.

5.5. Questo distacco non è esistito, per ragioni storiche, nei paesi di civil law.

L’ordinamento di questi paesi si ricollega, per lo più, alle riforme che contrassegnarono, in Francia, il superamento di quella soglia fatale del senso di ingiustizia percepito, che generalmente prelude alla rivolta all’ordine costituito e talvolta sfocia nella rivoluzione.

In quel Paese, il superamento di quella soglia fatale, nel 1790, aveva indotto il Re – pressato dall’ondata rivoluzionaria a porre fine agli abusi del sistema giudiziario dell’Ancien regime – ad effettuare alcune fondamentali riforme (obbligo della motivazione delle sentenze, istituzione del Tribunal de cassation, etc).

Uno dei capisaldi della riforma fu costituito dalla istituzione della polizia giudiziaria sotto il controllo del Procuratore del Re.

Questa riforma sorse, in particolare, come reazione al dispotismo di Stato, con delatori anonimi, agenti provocatori e polizia segreta, che rendevano bendata la giustizia.

La polizia giudiziaria fu scorporata dalla polizia di sicurezza (distinzione, questa che non esiste nei Paesi di common law), cui furono affidati solo compiti di prevenzione dei delitti.

La polizia giudiziaria - fu detto nel codice del 3 brumaio dell’anno IV - ricerca i delitti che la polizia amministrativa non è stata in grado di impedire.

Per tal modo la polizia giudiziaria ed il Procuratore del Re costituirono i filtri delle notitiae criminis e resero credibile e più agevole l’intervento del giudice istruttore, dinanzi al quale si formava la prova, con conferma al dibattimento.

L’affidabilità del sistema fu garantita dall’appartenenza, sia del procuratore che del giudice, all’ordine giudiziario.

5.6. Questo é il sistema ancor oggi in corso nei sistemi di civil law (Francia, Belgio, etc) e questo è il sistema da noi vigente sotto l’impero del codice Rocco.

Si discute se con l’entrata in vigore del codice Vassalli il pubblico ministero sia ancora condizionato nell’esercizio dell’azione penale dalla notitia criminis (rapporto, denuncia querela) e questa questione è intimamente connessa con l’aspra dibattito in corso sui limiti del cosiddetto controllo di legalità.

Su quest’ultimo tema è noto come la maggior parte della magistratura – specie quella associata – rivendichi la titolarità di tale controllo.

Si tratta di un controllo preventivo, non legato alla notitia criminis, e che consente al pubblico ministero di ricercare se un reato é stato commesso. Controllo estraneo alla tradizione degli ordinamenti di civil law

Il dibattito si estende agli analoghi poteri che, nei Paesi dell' Est, prima della caduta del muro di Berlino, erano affidati alla Prokuratura di stampo sovietico.

Quale condizione per l’ ingresso di questi Paesi nella Grande Europa, il Consiglio d' Europa ha preteso la revisione dell’istituto, ritenendo che lo stesso, per la sua pervasività, potesse negativamente incidere sulla stabilità dei sistemi democratici.

6. Questo lungo excursus si è reso necessario per chiarire come all’interno del problema della separazione o meno delle carriere si intrecciano le due questioni evocate dal Commissario dei diritti dell’uomo ed intimamente tra loro connesse: quella concernente l’attuazione del giusto processo e quella riguardante il mantenimento di un equilibrio democratico.

Alla luce delle predette considerazioni e cercando di ricapitolare quanto finora detto, possono – a mio parere – fissarsi i punti seguenti:

sotto il sistema del codice Rocco, quale vigente dopo l’entrata in vigore della Costituzione, l’unicità delle carriere e l’esistenza di un unico organo di autotutela trovavano la loro base razionale sulle circostanze appresso indicate:

a) il pubblico ministero era un organo giurisdizionale: il suo ruolo era sostanzialmente analogo a quelle del giudice istruttore. Poteva, infatti, nell’istruzione sommaria, procedere all’arresto ed alla scarcerazione dell’imputato e poteva raccogliere la prova, che trovava la sua verifica al dibattimento;

b) il pubblico ministero ed il giudice (istruttore o del dibattimento) agivano nell’ambito di un sistema inquisitorio definito di tipo misto, sia nella fase della istruttoria che del dibattimento; i loro ruoli erano ontologicamente analoghi e le loro funzioni, diverse solo nella fase dibattimentale, convergevano verso un unico obiettivo: l’accertamento della verità.

c) il pubblico ministero era legato, nell’esercizio dell’azione penale, alla notitia criminis(rapporto, denuncia, querela);

d) il pubblico ministero aveva il controllo dell’attività di polizia giudiziaria;

e) quello che oggi viene definito, con una certa accentuazione, protagonismo irresponsabile di qualche rappresentante del pubblico ministero trovava all’epoca, tra l’altro, reazione endoprocessuale con la possibilità, offerta alla difesa, di chiedere l’immediata formalizzazione del processo;

f) la cultura della giurisdizione era ed è assicurata dal Consiglio superiore della magistratura nell’ambito della sua attività di formazione continua dei magistrati. Ed è questo un argomento che viene costantemente opposto a chi parla di separazione delle carriere, sotto il profilo che, lasciato solo, il pubblico ministero acquisirebbe una mentalità di tipo poliziesco.
6.2 Sotto il sistema del codice Vassalli, quale esso risulta in conseguenza delle note sentenze della Corte costituzionale del 1992 e della successiva legislazione dell’emergenza, la separazione delle carriere e la costituzione di un duplice organo di autotutela sembrerebbe potersi giungere a ritenere preferibile sulle circostanze appresso indicate:

a) Il pubblico ministero – che non arresta e non acquisisce la prova – non si ritiene possa ancora essere definito quale organo giurisdizionale. Esso resta certamente organo giudiziario o, meglio, come si è visto (supra, 5.1.) organo di giustizia, promotore dei diritti dell’uomo. E’ organo di giustizia perché è il fine di giustizia che oggi legittima il suo agire, posto che lo scopo ultimo del processo – oramai riconosciuto in tutta l’ Unione europea – è quello di trattare in modo corretto tutti gli affari per pervenire al proscioglimento dell’innocente o alla condanna del colpevole. E’, alla luce della Convenzione europea, organo promotore dei diritti umani perché non deve più, come si diceva un tempo, vendicare il diritto violato, ma deve oggi rivendicarlo, promuovendo, nel rispetto del principio del contraddittorio, il corretto accertamento e una reazione dell’ordinamento adeguata e proporzionata alla violazione. Sembra, infine, opportuno porre in evidenza che il pubblico ministero – in tema di libertà personale per le esigenze dell’art. 5 § 3 della Convenzione europea – non può neanche essere assimilato ad un magistrato abilitato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie, come ripetutamente chiarito dalla Corte europea (cfr, da ultimo, Moulin c. France, sent. 23 novembre 2010);

b) il fatto che il pubblico ministero assuma la funzione di inquirente nella fase inquisitoria del procedimento e di parte nella fase accusatoria, porterebbe ad escludere, per le considerazioni già esposte (supra, 5.4.) che lo stesso possa far parte di un unico corpo con il giudice. La funzione ed il ruolo di giudice e pubblico ministero appaiono ontologicamente diverse. La separazione funzionale è connaturata con quella organica. La necessità della separazione ordinamentale sembrerebbe allora rafforzata dalla circostanza che lo stesso, in una fase accusatoria, fa valere dinanzi al giudice e nei confronti dell’imputato elementi di prova, raccolti nell’ambito di una fase inquisitoria, di concerto e con l’ausilio delle forze di polizia;

c) se si afferma la necessità di separare le carriere si deve derivarne, quale naturale conseguenza, l’istituzione di un separato organo di autogoverno per il pubblico ministero. Solo per tal modo, infatti, si può garantire anche al pubblico ministero l’indipendenza a lui riconosciuta rispetto all’esecutivo e a ogni altro potere dello Stato (supra, 5.1.);

d) in questa ottica, la composizione dell’organo di autogoverno dovrebbe essere tale da impedire – contrariamente a quel che al riguardo suggerisce la Commissione di Venezia (§ 66) – che i membri togati siano messi in minoranza dai laici.


E’ chiaro che se si dovesse operare nel senso della separazione delle carriere con la susseguente istituzione di un autonomo Consiglio superiore della magistratura requirente, vi sarebbe la necessità di regolamentare, con chiarezza, i compiti di indagine del pubblico ministero ed i suoi rapporti con la polizia giudiziaria.

E ciò al fine di eliminare in radice il rischio della creazione di un corpo separato dello Stato idoneo ad incidere sull’ equilibrio democratico e sul principio della sicurezza giuridica dei cittadini, cardine di ogni società democratica.

In tale prospettiva sarebbe importante chiarire (se del caso apportando le necessarie modifiche legislative):

che il pubblico ministero dovrebbe rimanere pur sempre legato, nell’esercizio dell’azione penale, alla notitia criminis (rapporto, denuncia, querela, etc.);

che il pubblico ministero non è il dominus del controllo di legalità: esso, invero, dovrebbe tendere alla ricostruzione della legalità violata, ma non potrebbe estendere la sua azione alla verifica che la legalità non sia stata per caso violata: ove dovesse verificarsi quest’ultima ipotesi il pubblico ministero verrebbe arbitrariamente ad assumere compiti di polizia, della pubblica amministrazione e della politica

che il pubblico ministero dovrebbe continuare ad avere – limitatamente alla notitia criminis – la diretta disponibilità della polizia giudiziaria;

che, quindi, il pubblico ministero non è il capo della polizia, ma rimarrebbe tuttora il controllore della polizia giudiziaria; il garante, cioè, della legalità processuale, sia sul versante investigativo sia su quello, di sua esclusiva competenza, dibattimentale;

che sembra opportuno ricordare come, all’esito di un appassionante dibattito, nel corso dei lavori preparatori dello Statuto della Corte penale internazionale, si sancì che il Procuratore può aprire un’inchiesta solo dopo aver valutato le informazioni sottoposte alla sua conoscenza (id est: notitia criminis) e a condizione che le informazioni in suo possesso forniscano un ragionevole fondamento per supporre che un reato di competenza della Corte è stato o sta per essere commesso (art. 53.1.a);

che all’argomento opposto sulla inesorabile consequenziale perdita della cultura della giurisdizione, va obiettato che la cultura della giustizia, dovrebbe trovare la sua fonte in una scuola superiore unica, aperta ad avvocati, giudici, pubblici ministeri ed ufficiali di polizia giudiziaria. Il modello del La.p.e.c. (Laboratorio permanente esame incrociato), formato da illuminati avvocati, docenti universitari, giudici, pubblici ministeri e tecnici, sta disincrostando dogmi e pregiudizi di stampo inquisitorio ed ha finalmente avviato, dopo oltre vent’anni (quasi una generazione) una cultura della civiltà accusatoria.

Solo per completezza di esposizione va esaminata, infine, la questioni concernente la scelta delle priorità per regolare il principio di obbligatorietà dell’azione penale.

In un seminario cui nel 1975 partecipai, a Strasburgo, sotto la guida del mio Maestro, il compianto Girolamo Tartaglione, vittima delle brigate rosse nel 1978, emerse che nei Paesi a quel momento aderenti al Consiglio d’ Europa vi era una tale convergenza in pratica sui principi di obbligatorietà o facoltatività dell’azione penale (principe de légalitéo d’opportunité des poursuites) da far apparire inutile la distinzione.

Il modo più semplice per risolvere il problema sarebbe quello di inserire, su determinazione consiliare, la scelta delle priorità nel circuito virtuoso istituito dalla circolare del Consiglio superiore del 2009 emessa in attuazione dell’articolo 6 del decreto legislativo n. 106 del 2006 sull’organizzazione degli uffici di procura.

Si tratta di un procedimento di garanzia – che sta manifestando grandi ed insospettate potenzialità innovative – il quale trova il suo vertice nel Consiglio superiore della magistratura e che vede coinvolti il procuratore generale di appello ed i dirigenti degli uffici di procura con l’intervento del Procuratore generale della corte di cassazione.

Si tratta di una autentica rivoluzione copernicana con cui, per la prima volta in Italia, è stato valorizzato, nell’organizzazione degli uffici, il concetto di uniforme esercizio dell’azione penale e, per la prima volta, l’uniformità è stata correlata al rispetto delle norme sul giusto processo.

Nel suo Rapporto, la Commissione di Venezia indica proprio nell’individuazione delle priorità un settore nel quale il parlamento e il ministero della giustizia o il governo possono, a giusto titolo, giocare un ruolo decisivo nell’elaborazione della politica in materia di esercizio dell’azione penale (§43).

La delicatezza del tema e la rilevanza degli interessi in giuoco, suggerisce, però, la necessità di una previsione costituzionale.

Occorre rilevare che tra i settori di intervento sinora esplorati, ha avuto un esito particolarmente positivo quello – ancora in corso, svolto in stretta cooperazione anche con i competenti uffici del Ministero della giustizia e le cui risultanze saranno sottoposte alle determinazioni del Consiglio superiore – concernente l’iscrizione delle notizie di reato nei relativi registri.